Storia di un’interinale di provincia. A Cura di Paolo Odello

Le pagine estive del Secolo 21 presentano il lavoro di Paolo Odello, giornalista del Ponente ligure: Colloquio e Storie di Fabbrica. Uno spaccato narrativo-giornalistico, vissuto in prima persona, sul mondo del lavoro precario. Un passaggio diretto nel mondo della produzione post moderna, passando attraverso l’agenzia di smistamento interinale, per approdare ad un contratto lavorativo neo schiavistico, dove il lavoro è inteso come concessione e non più come diritto. Il lavoratore, i tempi di produzione, le relazioni di fabbrica, la condizione dell’operaio in esubero.

Pronti per il colloquio?. Andrea Bodon.

Durante le prossime settimane con l’espediente della narrazione a puntate il Secolo 21 proporrà questo lavoro, cruciale per comprendere le dinamiche fondamentali entro le quali si inscrivono i nuovi processi che regolano il mondo del lavoro in questa epoca di ristrutturazione industriale e ripensamento dei rapporti di potere che nascono e crescono nel campo della produzione di massa mondiale.

“Colloquio”, che nell’idea di una raccolta dei vari reportage sul nuovo mondo del lavoro, avrebbe dovuto essere il prologo, l’antefatto che introduceva in argomento, e “Una storia di fabbrica”, premio Paola Biocca 2004 e pubblicata in forma ridotta con il titolo “L’interinale di provincia” su Diario della Settimana nell’autunno 2002, sono parte di lavoro più ampio su flessibilità e sommerso.

Colloquio.

“Ho letto, cioè mi hanno detto che con voi è possibile trovare qualcosa da fare in fabbrica e allora io….”.
“Non preoccuparti, qualcosa si trova” .
“Ho fatto anche il bagnino… beh non proprio bagnino, cioè davo una mano a un amico di mia madre che è bagnino sul serio e allora ho pensato, ma non voglio fare il bagnino”
“Allora va bene anche a noi, richieste di aiuto bagnini non ne abbiamo”
“Io voglio andare in fabbrica”.
“Operaio generico ti va bene?”
“Benissimo”. Bello, allora ha deciso di prendermi.
“Quando si comincia?”
“Questione di qualche settimana, un mese al massimo… qualche richiesta di inserimento è già arrivata aspettiamo l’okkei da un giorno all’altro e allora ti chiamiamo per fissare la data del colloquio”.
La notizia di quel futuro e potenziale inserimento sembra avergli ridato vita. La poltroncina sembra incapace di contenerne tutta l’esuberanza. Appena esco glielo dico, cazzo che bello tra qualche giorno arrivo anch’io. I primi tempi posso viaggiare con Matteo lui ha la macchina e siamo amici.
“Hai problemi a spostarti?”
“Nessuno, cioè voglio dire che per un lavoro col motorino arrivo dove vuole”.
“Problemi di orario se ti chiedono di fare turnazioni particolari?”
“Non c’è problema. Ho gli amici che già ci lavorano in fabbrica e così mi hanno spiegato tutto cioè voglio dire che qualsiasi orario va bene”.
“Perfetto. Rimaniamo d’accordo che appena so qualcosa ti chiamo”.

Appollaiati sulle poltroncine dell’area attesa, altri potenziali inserimenti. Magazzinieri con esperienza nel settore, addette alle pulizie, operai generici, tecnici informatici, camerieri di sala, baristi. Non manca nessuno. Pronti all’etichettatura, allineati come tanti prosciutti in offerta speciale, aspettano che la sedia di fronte all’intervistatrice sia libera.

Flessibile, interinale, precario. Terminologia nuova per descrivere storie vecchie. Storie che si credevano archiviate per sempre nella memoria del movimento operaio.

Esuberi, avanzi di ristrutturazioni aziendali, ragazzi che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro. E altri, più vecchi, che sperano di rientrare in gioco grazie a improvvisati somministratori di lavoratori a tempo. Nel quotidiano limbo della precarietà li incontri tutti, non manca nessuno. In perenne attesa di una chiamata che tarda ad arrivare. E tutti che raccontano di quel pellegrinaggio iniziale. Cappello in mano e tasche piene di promesse, in coda davanti allo sportello di un’agenzia interinale appena aperta. La storia inizia sempre con una scrivania e un uomo seduto di spalle.

La ricerca del lavoro, le aspettative e la realtà di un impiego precario. Di Andrea Bodon.

Di fronte a lui una ragazza. La stessa che lo ha fatto accomodare sulla poltrona degli ospiti. In attesa dell’intervista finale.

“Soltanto cinque minuti, due chiacchiere,  giusto per conoscerla meglio” ha detto lei. Poi, senza sprecare altro tempo, è tornata a sedersi al posto di comando oltre il ripiano della scrivania. Occhi bassi e attenti, la ragazza controlla che l’uomo non abbia lasciato spazi bianchi sul modulo d’iscrizione. Due fogli, quattro pagine prestampate. Domande e caselle da barrare, spazi bianchi da riempire, Poi l’intervista. È prassi. La flessibilità ha regole ferree.

“Questione di un istante, controllo il suo profilo e sono da lei”.

La ragazza sorride. Anche questo è prassi. Questione di un istante.

L’uomo siede sulla poltroncina incapace di staccare gli occhi dalla ragazza. Il suo sguardo segue con ostinazione quello della segretaria che attento scorre sulle caselle del questionario. Incapace di decifrare le espressioni di un volto sconosciuto si limita a prenderne atto. Le registra e aspetta.

Questione di un istante.

Così ha detto e poi si è tuffata sui fogli appena consegnati. Silenziosa. Professionale. Efficiente. Una parola dopo l’altra, il dito scorre veloce su frasi sempre uguali. La ragazza non legge, controlla. A ogni domanda deve corrispondere la regolamentare “X” a barrare l’alternativa di una risposta senza sfumature. Lettura sbrigativa e controllo, prassi consolidata nell’uso quotidiano.

Questione di un istante. Ma quanti minuti riesce a farci entrare in un solo istante?

Aspettare. Sperare in una risposta capace di cambiare colore a una giornata nata storta. E poi lo dice anche il pieghevole che l’uomo stringe fra le mani. Il lavoro è importante per la tua vita. Nella nostra filiale troverai tante opportunità, vieni a scoprirle dal lunedì al venerdì. Fai la scelta giusta e non te ne pentirai.

Legge ancora. L’uomo che le sta di fronte è soltanto un numero fra tanti. Una faccia e una storia da archiviare e poi dimenticare. Noia quotidiana. Ripetitiva come il lento masticare di plastica. La penna a sfera fra i denti, la ragazza ne rosicchia meccanicamente il cappuccio con il stampigliato in bianco. Gadget pubblicitario, utile soltanto a segnare gli sbagli di una compilazione frettolosa.

Denti bianchi che affondano leggeri e si ritraggono di scatto. La ragazza sorride. Smette di masticare e con un gesto stranamente veloce strappa la biro dalla morsa dei denti. Scarabocchia un veloce promemoria. Chiarire più tardi. Che altro può significare quella piccola “V” tracciata di fretta a fianco della casella? Approfondire più tardi.

L’uomo però ha un sussulto. Con la destra si aggrappa al pieghevole per non interrompere il lavoro della ragazza. Le dita si contraggono. Appallottolano fotografie e pagine colorate. Le stesse che lo hanno convinto a cercare l’approvazione di una ragazza dal sorriso assente.

Calma. Rimanere calmo anche se ormai lo so, qui non ci dovevo venire. Non dovevo entrare, ma come si fa a non sperare. Ormai ci siamo. É solo questione di un istante. Sono in ballo, e quando si è in ballo si deve ballare. Meglio degli altri, se possibile.

Distrarsi. Non farle capire il bisogno, l’urgenza. Centinaia di porte in faccia gli hanno insegnato a non presentarsi mai col cappello in mano. Mai. Nemmeno se….   L’urgenza però c’è, dopo tre mesi spesi a girarmi i pollici quella c’è. E c’è anche la paura di non farcela e anche l’ansia per una soluzione che non arriva.

Le mani! Dove metto le mani?

Sono così sudate che questa qui si accorge dell’ansia. E anche della paura di non farcela. Andrea Bodon.

Sono così sudate che questa qui si accorge dell’ansia. E anche della paura di non farcela. .

Distrarsi.

L’uomo ora si guarda attorno. Con indifferenza, tanto per ingannare l’attesa.

Ufficio nuovo, freddo, razionale. L’inventario è cosa di pochi secondi. Non ci vuole molto a contare due scrivanie, due scaffali, una manciata di classificatori gialli e verdi. Pennellate di colore. Idea d’arredamento per spezzare la monotonia di una filiale tono su tono. Grigio. Scrivanie chiare e scaffalature più scure. La stessa tonalità del tavolo. A destra di chi entra il ripiano offre pieghevoli e sottolinea promesse già dichiarate. Fai la scelta giusta e giù un sorriso. Dalle pagine del pieghevole solo sorrisi e anche la ragazza sorride a ogni domanda. Questione di un attimo e sono da lei…

Grigi. Sono grigi anche i vetri. Grigi e spessi. Devono essere proprio spessi se riescono a tenere fuori i rumori della strada e il sole. Vetrate a tenuta stagna come quel del reparto in ospedale. Qui però non ci sono grate. Anche la ragazza ha qualcosa dell’infermiera. Asettica. Professionale. Sorride, ma non con gli occhi.

Asettica. Professionale. Sorride, ma non con gli occhi. Di Andrea Bodon

Sguardo fisso, l’uomo scruta il volto della ragazza sprofondata nel controllo di routine. Immobile e professionale, lei non lascia trapelare emozioni. Niente che aiuti a decifrarne i pensieri. A rompere il silenzio che avvolge l’ufficio rimane soltanto l’indolente rosicchiare di plastica blu.

Sembra un film. E infatti, come in un film, il tempo rallenta. Quasi si ferma.

Questo però non è un film. È la sceneggiatura di una lotteria che a quarant’anni di distanza accende le stesse speranze. In palio, come allora, c’è il posto, e uno stipendio. Precario e a tempo, ma è pur sempre una speranza. E poi non si sa mai.

E dai, ancora una pagina e ci siamo. Vado dove vuoi. Mandatemi dove vi pare, ma datemi un lavoro. Adesso. Subito. Voglio sorridere con tutti gli altri. Voglio tornare a casa sorridendo. Voglio tornare a casa e con un bel sorriso e dire a tutta la famiglia anch’io ho fatto la scelta giusta: si comincia domani. Quarantotto. Quasi cinquanta. Che età balorda per rimettersi in pista e cercare un lavoro.

La ragazza interrompe la lettura. Due, tre secondi. Il tempo necessario per scarabocchiare ancora una piccola V.

Non va! Lo sapevo. Ma come si fa a condensare tutta una vita in dieci righe. A me serve un lavoro e quella si mette far la pignola con le risposte. Le mie risposte. Sono giovani, certe cose mica le capiscono. Alla mia età il bisogno e più bisogno che mai e se racconti qualche balla lo fai a fin di bene. Non vuoi mica fregare nessuno.

L’uomo ha uno slancio in avanti. La sinistra appoggiata alla scrivania e il busto proteso in avanti: “Signorina! Mi scusi, ma ho visto che…”, accenna un movimento con la mano, l’indice destro sollevato a sottolineare un qualcosa. “Vede sono stato costretto a riassumere, in verità…”

“Non si preoccupi…. dopo vediamo”. Senza nemmeno guardarlo gli ha spento ogni coraggio. L’uomo torna a sedersi. La mano ancora a mezz’aria, l’indice teso, stroncato sul nascere da quel sorriso d’occasione: “Dopo vediamo”.

Ora la ragazza raddrizza la montatura nera degli occhiali che lentamente scivolano  sul naso abbronzato. Ha la biro di nuovo fra i denti. Mastica plastica e stress.

Secondo e ultimo foglio. La lettura accelera, si può indovinare dalla mobilità degli occhi. È arrivata a metà del testo.

L’uomo torna a mordersi il labbro. Nelle ultime righe c’è quella domanda. Disponibilità?  Certo che c’è disponibilità, se non fossi disponibile mica sarei qui. Sarei al lavoro e non avrei le mani così sudate e la gola secca. Secca e ormai senza fiato come il conto in banca. Tenti e poi incroci le dita. Far buon viso a cattivo gioco. Ma come si fa a condensare tutta una vita in dieci righe? A ogni riga gli stessi spazi bianchi. Cinque centimetri per la risposta e poi due date. Inizio e cessazione del rapporto di lavoro. A fianco lo spazio per scrivere una cifra. Utile per definire un approssimativo lordo. E chi se lo ricorda il lordo dell’ultimo lavoro vero?  Trentaquattro milioni più o meno, ma allora c’erano le lire. E poi è cominciato il nero. Amici, conoscenti. Gente che mi ha dato una mano quando la fabbrica ha chiuso i battenti per spostarsi in un altra regione. Lontana da casa. Troppo e io ho risposto no. Quello che volevano. Non gli deve essere sembrato vero potersi liberare così velocemente degli avanzi. Ero un operaio e sono diventato un esubero. Arrivederci e grazie.

Uno di troppo. Troppo vecchio e con troppa esperienza sulle spalle per riuscire a credere che questa ragazza mi trovi un lavoro. Sono giovani, certe cose mica le capiscono. Alla mia età il bisogno e più bisogno che mai.

Cessazione del rapporto, motivazioni. Con quali parole si può descrivere la politica di una multinazionale che acquista un’azienda, la declassa a  marchio e poi chiude la fabbrica. Come raccontarlo nel curriculum da consegnare a chi dovrebbe trovarti un altro lavoro. Uno vero, regolare e alla luce del sole.

“Accomodatevi pure, qualche istante e sono da voi”. Con un sorriso imbonitore stampato sul volto fresco di lampada, la ragazza indica le poltroncine dell’attesa. Ha interrotto la lettura per ricevere due donne. Al primo trillo del campanello si è alzata di scatto e con la destra ha preso al volo una manciata di prestampati.

“Intanto compilate questo”.

Snella e abbronzata, testimonial più o meno volontaria di uno sportello che promette felicità. Fasciata in un tailleur chiaro, la ragazza distribuisce sorrisi al fluoro mentre torna a sedersi.

L’uomo la segue con occhi attenti.

Sul cartello affisso in vetrina si parla di urgenza e quella si perde in ciance.

“Per qualsiasi problema chiedete pure, sono qui per questo”.

La ragazza sorride ancora. Quasi cordiale. Così le hanno insegnato al corso di comunicazione e marketing. E sorride anche riaggiustandosi la gonna prima di sedere sulla poltroncina con lo schienale più alto. Sedile dirigenziale. Le mani sfiorano appena il tessuto. Gesti studiati e lenti, da attore consumato. Nell’aria immobile della filiale solo il leggero fruscio della gonna costretta a rientrare nei ranghi. Appena un soffio, impalpabile come il tailleur estivo. Caro e griffato come si conviene a una donna in carriera..

A Piera piacerebbe… Per una cosa così sono capaci anche di chiederti due stipendi.

La bocca dell’uomo si increspa in una smorfia. Amara come la rabbia a stento trattenuta. Stipendio e lavoro, nemmeno ricordo com’è fatto uno statino. Un lavoro…

La lettura è terminata. Il controllo finito. Ogni domanda ha la sua risposta, la ragazza ancora sorride. Non ha più alzato gli occhi dal foglio. Solo ora torna a guadare l’uomo che le sta di fronte. Una faccia come tante, una storia da archiviare al più presto. .

Dimmi qualcosa. Parla. E dai che tanto… magazziniere, operaio generico, addetto alla linea di produzione va bene tutto. In vetrina promettete di tutto. È per quelle promesse che sono qui.

Rannicchiato sulle poltroncine nere a destra dell’entrata un altro ragazzo. Aspetta in silenzio che la sedia di fronte alla ragazza si liberi. È entrato in punta di piedi e in silenzio si è tuffato sul modulo di iscrizione. Concentrato che nemmeno fosse un compito in classe, non si è accorto delle due donne. Hanno dovuto scuoterlo per fargli spostare le gambe e prendere posto sulle poltrone indicate con tanta insistenza dalla ragazza.

Un’occhiata distratta ai nuovi arrivi e poi di nuovo chino sulle caselle ancora da riempire. Perso dentro un curriculum vitae troppo corto per riuscire a riempire quattro pagine. Legge e rilegge con attenzione, poi cancella. Rabbioso. E subito riscrive. Con grafia minuta riempie il poco spazio ancora libero. Sedute su poltroncine uguali alla sua, le due donne sono chine sulle stesse quattro pagine. Costrette a confrontarsi con le domande di un questionario inaspettato.

Annaspano. Inciampano. Esperienze precedenti?

E dai che manca soltanto una riga, l’ultima. Forza. Dai. .

“Il suo curriculum va benissimo” dice la ragazza guardando l’uomo negli occhi. Il solito sorriso stampato in faccia.  “E ora l’intervista. Soltanto cinque minuti, tanto per capire meglio la sua disponibilità in termini di tempo”.

“Da subito, io mi adatto a far tutto magazziniere, operaio generico anche manovale se occorre e poi….”.

“Non mi sono spiegata, io voglio conoscere la sua attuale disponibilità in fatto di lavoro. Preferisce un inserimento part-time o full-time. Mi ha capito? Poche ore o tutta  la giornata?”

Occhi sgranati, l’uomo guarda la ragazza. Incredulo.

“Disponibilità? Tempo? Di quello ne ho quanto ne volete. Ne ho così tanto che me ne avanza”. “Inserimento part-time o full-time. Cosa preferisce?”

“Voglio lavorare e voi sul cartello in vetrina avete scritto che cercate un magazziniere e anche un operaio”.

“Forse non mi sono spiegata. Lei ora è iscritto e io inserisco il suo profilo in archivio e non appena la ricerca dei profili che lei ha letto in vetrina diventa operativa, lei sarà fra i primi ad essere contattato. Contento?”.

“Ma sul cartello c’è scritto urgente e io posso cominciare da subito”.

Sembra un film e proprio come in un film ogni personaggio recita il ruolo che la sceneggiatura gli ha imposto. Parole già dette e gesti già visti. Un dialogo già scritto. Non sono ammesse deroghe.

Ora la camera si sposta di lato, gira su se stessa di poche decine di gradi e inquadra le due donne. Assorbite dalla compilazione del questionario sono rimaste in ombra. Domande e caselle, spazi bianchi da riempire a ogni costo. Magari con qualche bugia. Che quando c’è il bisogno non si va tanto per il sottile. E poi sul giornale c’è scritto che il lavoro c’è da subito. Basta chiedere.

“Inserimento immediato. Sulla nostra inserzione c’è scritto proprio così: inserimento immediato”. La voce roca di una donna costringe la ragazza a rialzare lo sguardo. Non ce l’ha fatta a rimanere in silenzio. Aspettare il turno e poi chiedere. Perché? Il lavoro o c’è o non c’è.

“Guardi qui, legga”. Dalla tasca laterale della borsa salta fuori il ritaglio del giornale. Ripiegato con cura che altrimenti si rovina. Adesso è lì. Pronto a garantire sulla buona fede che l’ha trascinata fin dentro a quest’ufficio di plastica.

“Va bene, ma ne parliamo dopo. Cinque minuti e sono da voi”.

Il solito sorriso stampato in faccia, la ragazza taglia corto. “Aspetti il turno e poi ne parliamo”.

Più tardi. Aspettare. Quel sorriso ha spento il poco coraggio e la donna torna a sedere…

“Lo sapevo. Io nemmeno ci volevo venire”

“Sta zitta che se quella si arrabbia sul serio…”.

“Leggi qui! Inserimento immediato” insiste. Le ultime due parole quasi le sillaba. Fra le mani mezza pagina del quotidiano locale. Cerchiata di rosso la promessa di un’entrata sicura.

Addette impresa pulizie. Esperienza nella mansione, disponibilità orario. Inserimento immediato. “Leggi! Hai visto che c’è scritto proprio così: inserimento immediato”.

“Ci serve un lavoro e tu fai incazzare quella che può darcelo, ma si può essere più cretini?”.

“E chi se ne frega. Io neanche ci volevo venire, sei stata tu a insistere”. Già! Se non ci fosse stata Ida a trascinarmi fin qui non dovrei neanche fare i conti con tutte queste domande. Si. No. Sì. Ultima occupazione? Inventare, come dice Sergio. Inutile. Tanto va a finire come con quelli degli aspirapolvere? Anche lì tante promesse e salamelecchi e poi basta. Non si preoccupi che il suo inserimento in organico è solo questione di giorni. La sua domanda è qui in evidenza. Vede? Una settimana al massimo, giusto il tempo di trovarle un affiancamento. A presto. Non si sono mai fatti vivi. L’accenno di una risata le increspa le labbra. Risata amara, senza allegria. Bastardi. Il numero di telefono lo ha lasciato? Bene, a presto signora, non si preoccupi.

Quando toccherà a noi chiederemo. Ida si beve ogni cosa. Quelli promettono, garantiscono e lei abbocca.

“Non preoccuparti che quando tocca a noi ci facciamo spiegare tutto”.

Anna non cambierà mai. Prende fuoco a bagno.

Se avessi la sua età anch’io potrei fregarmene. Lei ha un diploma, è giovane. Non ha mica bisogno di lavare scale per tirare avanti. E poi suo marito un lavoro ce l’ha. Stai calma! Non farti prendere dall’angoscia. Me lo ha detto anche Aldo. Mi raccomando, stai calma e non firmare niente e se non capisci digli che devi parlarne con tuo marito. Ricordati di non firmare niente.

Questi qui però vogliono sapere il come e il perché di un sacco di cose. E poi vogliono anche due firme. Leggibili ha detto la ragazza.

Qualche soldo in più però servirebbe. Addetta alle pulizie, un lavoro come un altro. E se pagano va bene così. Lei scrive e io non capisco neanche le domande.

“Ho quasi finito… dopo ti do una mano”. Ida è una palla. Si perde in un bicchiere d’acqua. Soltanto la sua insistenza poteva trascinarmi a cercare lavoro. Qui dentro.

Titolo di studio? Quello ce l’ho. Diploma. Mai usato. Non c’è stato il tempo. Alla maturità ci sono arrivata col pancione. Questo però non è il caso di scriverlo.

Esperienze precedenti? Barista, in spiaggia da mio cognato. Tutto in famiglia. Fra di noi che bisogno c’è di fare contratti ha detto lui così se adesso lo scrivo va ancora a finire che vanno a fare dei casini a lui. Però qualcosa lo devo dire. Barista e poi commessa in profumeria, sotto Natale, per confezionare i pacchetti regalo delle clienti. E poi ancora barista, donna delle pulizie nel condominio di mio fratello. In nero che altrimenti le tasse si mangiano tutto dice Sergio e io gli credo. E poi sono arrivati i turni con Ida. Una settimana per uno.

“A che punto sei che io ci sono due domande che proprio non so”

“Saltale che dopo ti do una mano io”.

“E dai fammi vedere quello che hai scritto tu”.

Disponibilità di orario? Sì.

“Sì? Se lo dici tu lo scrivo anch’io poi si vedrà”.

Con un po’ di fortuna tutto si aggiusta. Per gli orari si vedrà e anche con la scuola dei bambini si vedrà. L’importante è che il posto ci sia e che loro ce lo diano. Il posto c’è. Deve esserci, c’è scritto sul giornale. Fa che questi qui non siano come quelli degli aspirapolvere! Se rispondo nel modo giusto il posto me lo danno.

“A che punto sei? Io ho già finito!” esclama Ida. Ride. Sembra una ragazzina nonostante i suoi cinquant’anni. Anna si volta a guardarla stupita. Ida ricambia con un sorriso. E sorride anche al ragazzo che si agita alla sua destra. Con affanno anche lui è arrivato all’ultima pagina. Così arruffato sembra un pulcino bagnato. Rilegge le risposte buttate giù di fretta e con le dita maltratta una ciocca di capelli. Lentamente li arrotola costringendoli fra indice e pollice. Arruffato e silenzioso, legge, sbuffa, cancella e subito riscrive. Ma ormai nessuno più gli bada. .

La ragazza sorride beata e professionale. Un faccione gioviale e in carriera. Uguale a quello del manifesto pubblicitario appeso alle sue spalle.

“Va benissimo! Il suo curriculum è a posto e vedrà che presto troviamo anche qualcosa che fa al caso suo”. Sorridente, quasi cordiale, fissa l’uomo negli occhi: “Ancora due domande e poi la lascio tornare alle sue occupazioni abituali”.

“E il lavoro?” chiede l’uomo. Lo sguardo perso nel vuoto di un sorriso ostentato si accascia sulla poltroncina in similpelle. “Dov’è finito il lavoro?”

“Ancora due domande e poi inserisco il suo profilo in archivio”

“Operaio, magazziniere, manovale… qualsiasi cosa”

“Lei ha problemi a spostarsi fuori città?”

“Vado dove volete e posso cominciare anche subito”

“Disposto a spostamenti, bene”

“In vetrina però il lavoro avete scritto che c’è e io speravo che…che cosa racconto a casa?”

“Il curriculum è a posto, alla prima richiesta di un profilo come il suo vedrà che la contattiamo noi.  Non si preoccupi che le prospettive sono buone”.

Con il perenne sorriso stampato sul faccione felice, la ragazza passa oltre. Il questionario impilato con gli altri, nella vaschetta di plastica grigia a fianco del telefono, e con l’iscrizione appena ufficializzata impugna il mouse. C’è il profilo da archiviare. Il monitor si illumina e il logo dell’agenzia sparisce risucchiato nel gorgo nero del fondo. Clic. Una manciata di secondi poi ricompare. Rimpicciolito e senza più ombre si va a incasellare nell’angolo di destra della pagina appena aperta. Per aggiornare i dati cliccare sulla X. Clic. Ok.

L’uomo abbozza una smorfia sbilenca. Vorrebbe essere un sorriso, ma la delusione brucia. Dallo stomaco sale velocemente in gola. Scalcia e urla, toglie fiato alla rabbia: “I cartelli in vetrina però..”.

“È tutto a posto. La contattiamo noi, non si preoccupi, a presto”.

L’uomo si alza. Barcolla. La testa che scoppia di parole. In prospettiva. Nella prospettiva di un prossimo inserimento. Le prospettive sono buone. “Ma che cazzo vuol dire in prospettiva?”

Occhi bassi e mani in tasca attraversa la stanza. Il ragazzo accenna un saluto ma l’uomo non guarda in faccia nessuno. Gli sguardi degli altri non li vuole vedere. Ci leggerebbe frasi che già gli rimbalzano in testa. Martellanti e senza speranza. . In prospettiva. Nella prospettiva di un prossimo inserimento. Le prospettive sono buone.

“Ma che cazzo vuol dire in prospettiva?”. Difficile da digerire e ancora più difficile da spiegare. A casa vorranno sapere. Curiosi e impiccioni non mi danno pace. Da quando la fabbrica dell’olio ha chiuso non sanno parlare di altro. In testa hanno solo il lavoro. E io che non riesco a trovarlo. Rospi da mandar giù e porte in faccia, di quelli ne ho collezionati tanti.

“Che cazzo vuol dire in prospettiva?”.

La mano sulla maniglia. Ta-tac. Il pulsante che scatta e libera la porta vetri. Spicchi di sole illuminano la sagoma dell’uomo. Scrolla la testa. Come per scacciare un brutto sogno: “Che cazzo vuol dire in prospettiva?” . Operaio, magazziniere, manovale va bene tutto. Mi accontento di poco e in cantiere lo sanno. La prospettiva non mi interessa. Al negozio sotto casa vogliono che saldi il conto ormai troppo lungo e io torno con la novità di una buona prospettiva.

“Che cazzo vuol dire in prospettiva”.

L’uomo si volta. Un’ultima occhiata alla ragazza che lo ha già archiviato e una anche ai cartelli pieni di promesse. “Tanti auguri” sussurra rivolto al ragazzo che ancora lo fissa. Non lo ha perso di vista un solo istante. Dalla scrivania fino alla porta a vetri e poi anche fuori. Incollato al grigio dei vetri. Senza mai staccare lo sguardo da una delusione che tra pochi minuti potrebbe essere anche la sua. .

“Vieni pure”. Sorridente come sempre, la ragazza gli indica la poltroncina in similpelle ormai libera.

“Arrivo”. Ancora un’occhiata all’uomo fermo sul marciapiede.

Immobile. Incapace di staccarsi dagli avvisi ancora appesi in vetrina.

“Vieni pure, ti rubo soltanto cinque minuti”.

Occhi bassi il ragazzo riconsegna il prestampato. Senza dire una parola allunga la mano con i fogli. Silenzioso li appoggia sul ripiano della scrivania e velocemente ritrae la mano.

Anche la ragazza è silenziosa. Ha raccolto il questionario e legge. Una parola dopo l’altra, al ritmo di un lento rosicchiare di plastica blu. Occhi bassi, il ragazzo sbircia fra le carte. Troppe cancellature. Non presenta mica bene e allora va a finire che questa si incazza. Preciso come la prof. di italiano che a ogni tema dava di matto per tutte le cancellature e gli sbafi. La fretta è cattiva consigliera, lo ripeteva sempre. Ma gli amici sono fuori e mi aspettano. E se questa qui si incazza cosa racconto? Io però in fabbrica ci voglio andare. Sicuro come il fatto che sono qui. E dai. Se ti danno fastidio tutte ’ste cancellature saltale. Tanto non hanno mica importanza. Se le salti fai anche più in fretta. E dai che fuori c’è gente che mi aspetta. Fammi firmare che esco. Gli amici aspettano, loro già lavorano e hanno il tempo contato.

PUNTATE SUCCESSIVE:

Prima puntata.

Seconda puntata.

Terza puntata.

L’uomo si alza. Barcolla. La testa che scoppia di parole. In prospettiva. Nella prospettiva di un prossimo inserimento. Le prospettive sono buone. “Ma che cazzo vuol dire in prospettiva?”. Di Andrea Bodon.
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