Pianeta carcere, quando lo Stato evade le regole.

A Marassi il sovraffollamento è strutturale, in particolare nella prima sezione dove sono reclusi i detenuti in attesa di giudizio: più della metà del totale. La notte un solo agente ha la responsabilità di quasi 200 detenuti.

Le notizie che giungono dal pianeta carcere sono di una costanza sbalorditiva: il suicidio settimanale è quasi d’obbligo. Con inesorabile puntualità lo scorrere della morte autoinflitta dietro le sbarre porta a ricordarsi di come, in tutta la melma dei problemi italiani, il sistema penitenziario sia rappresentativo di un approccio più ampio dell’apparato statale nei confronti dei cittadini. Totale non curanza dei diritti in sfregio alla legislazione esistente. E’ ironico, con sordido sarcasmo ammesso, ma proprio il carcere può essere una lente di ingrandimento attraverso la quale comprendere i meccanismi funzionanti nel nostro paese.

Meccanismi che per la maggiore poggiano su un corpus di regole evase dallo stesso Stato.

La detenzione è regolata in’Italia dal art. 27 della Costituzione il quale afferma roseo e ben disposto: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

Roseo, ben disposto e intriso di umanità si dovrebbe insomma applicare una norma che ricorda come la pena di essere privato della propria libertà sia sufficiente a se stessa, e senza doversi caricare di ulteriori privazioni, la galera debba poter far riflettere chi vi è rinchiuso, sempre mostrando il lato umano del diritto: una pena finita, che non nuoce a chi la subisce  al di fuori di quanto previsto, ma certa nella sua conformità alla legge si applica con omogeneo rigore . Questa sarebbe la certezza della pena.

Niente di più lontano dalla realtà. In Italia, sottraendo i pochi e si contano con una mano, istituti modello, la stragrande maggioranza degli stabilimenti di pena, che sono oltre duecento, ha perso ogni contatto con quanto prescritto, quindi d’obbligo, dalla Costituzione.

Sorge quindi una domanda di legittimità intorno a uno Stato che si pone ad esempio per quel che riguarda l’aderenza alla legge, per poi essere, al contrario, un attore desposta, che applica quando può o conviene, e invece si riserva di sospendere in altri momenti, quando non può ho non ha interesse.

Lo Stato ha diritto a punire se al di fuori della sua stessa legge? Se non garantisce cioè che la pena sia espiata senza ledere la dignità dei detenuti? Uno Stato del genere non è improntato a una logica monarchica del potere, dove la discrezionalità dell’arbitrio è superiore alle tutele democratiche della legge?

Per dare un senso ai  tempi che vive l’apparato penale nazionale basti pensare che attualmente con 67 mila detenuti, il sistema penitenziario ha raggiunto il triste record di presenze nella patrie galere dal dopoguerra ad oggi. Queste sono le dimensioni di un fenomeno ultimamente sempre affrontato a livello mass mediatico con la propaganda della certezza della pena e del tanto in carcere non ci va più nessuno. E meno male se no altro che record.

Se da un lato Pannella, in visita all’Ucciardone di Palermo, può affermare senza timore di smentita:  “Le carceri sono una discarica sociale”, per una volta invece di ascoltare i politici che ogni tanto si ricordano di dover anche visitare le prigioni (in quanto luogo specifico della violenza statale applicata al cittadino), forse può essere più utile sentire che ne pensa Donato Capece, rappresentante del SAPPE, il principale sindacato della polizia penitenziaria.

Ed in primis il sindacalista delle guardie afferma:

“Il Corpo di Polizia Penitenziaria, i cui organici sono carenti di oltre 6mila unità,  ha mantenuto fino ad ora l’ordine e la sicurezza negli oltre duecento Istituti penitenziari a costo di enormi sacrifici personali, mettendo a rischio la propria incolumità fisica, senza perdere il senso del dovere e dello Stato nonostante vessati da continue umiliazioni ed aggressioni da parte di una popolazione detenuta esasperata dal sovraffollamento e da politiche repressive che non hanno avuto il coraggio e l’onestà politica ed intellettuale di riconoscere i dati statistici e gli studi Universitari indipendenti su come il ricorso alle misure alternative e politiche di serio reinserimento delle persone detenute attraverso il lavoro, siano l’unico strumento valido, efficace, sicuro ed economicamente vantaggioso, per attuare il tanto citato quanto non applicato articolo 27 della nostra Costituzione.

Nonostante il corpo di polizia penitenziaria sia sotto di 6 mila unità, come conferma Capece, si è calcolato che il rapporto detenuto-agente sia fra i più alti di Europa: dove nascono allora queste strutturali mancanze di personale? Sarà per caso che tanti agenti sono impiegati in affari burocratici/istituzionali che niente hanno a che vedere con la vita nelle sezioni? Quanti siano questi probabili agenti imboscati che al lavoro in galera preferiscono le kermesse pubbliche, non ci è dato saperlo, risulta però chiaro come Capece individui la causa delle vessazioni dei suoi colleghi, più nelle politiche repressive, colpevoli di miopia strumentale alla propaganda, che nei detenuti con i quali la polizia penitenziaria condivide la vita quotidiana all’interno delle sezioni detentive. Fra i politici miopi e i detenuti esasperati Capece sembra aver maggior sintonia con i secondi.  E questo dovrebbe dirla lunga sul livello di propaganda mediatica intorno al tema carcere, sistema penale e giustizia.

per approfondimento vedi anche:

Le carceri nel Belpaese.

La logica perversa del carcere.

La libertà non è uno spazio libero.

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