Pacchetto sicurezza e il 1 marzo. L’economia sommersa e il ruolo dei lavoratori

Se la discriminazione legislativa fosse un binario del treno e le decisioni politiche, assunte sull’onda della propaganda mediatica della paura-fai da te, fossero le stazioni, il pacchetto sicurezza varato la scorsa estate dal Ministero dell’Interno, sarebbe uno snodo ferroviario fondamentale per comprendere il tragitto intrapreso dalla politica nel percorrere coscientemente la direzione verso il razzismo istituzionale.

1 marzo sciopero contro la discriminazione e il razzismo istituzionale.

Il contesto che rende possibile ad uno stato democratico del XXI secolo di sviluppare tale prassi normativa è quello di un mondo globale letto con gli occhi semplici e inappropriati di chi continua a guardare al futuro prendendo se stesso come metro e misura di ogni eventualità.

L’Italia è il centro del mondo. E’ questa constatazione che conduce inevitabilmente a disporre di una serie di alternative politiche che nuocciono alla comprensione degli eventi mondiali.

Il nostro paese si trova geograficamente a  contatto con due realtà opposte e complementari: sud di un Europa che si chiude a riccio per non vedere destabilizzato il proprio stato sociale e nord di un’Africa che, incalzata da guerre, desertificazione forzata, e aiuti umanitari spesso strumentali a se stessi, tende ogni suo muscolo per raggiungere le coste di un mondo che seppur in declino ancora non ha conosciuto il baratro.

In questa circostanza l’Italia può e deve ricordare a se stessa di essere sempre stata crocevia e fulcro dello scambio interculturale, uno scambio che lungi dal rappresentare minaccia, è oggi più che mai un’occasione per ripensare la propria cultura e prendere spunto dalle espressioni più positive dei mondi con cui entriamo a contatto. L’immigrazione è un momento di incontro, non di scontro.

Lo scontro serve solo ai politici che sulla paura costruiscono architetture dell’odio, impalcature del diniego e consenso esclusivo contro il prossimo.

In Italia vivono circa 4,5 milioni di immigrati regolari. Lavorano, hanno famiglia, cercano di condurre una vita normale. Contribuiscono al prodotto interno lordo italiano con 134 miliardi di euro annui fra tasse e INPS, il 9% della cifra totale. Pagano con il loro lavoro le pensioni di uno dei paesi più vecchi del mondo, contributi di cui, nel caso scegliessero di tornare al loro paese, non usufruiranno mai.

Lo sciopero del 1 marzo ha loro come protagonisti. Loro che hanno conosciuto l’Italia attraverso i suoi cittadini, tramite le sue leggi e tramite l’equazione televisiva assunta da un intero popolo come vera: immigrato uguale clandestino e clandestino uguale delinquente.

Le carceri italiane effettivamente sono piene di stranieri e questo dato di fatto suggerisce automaticamente all’opinione pubblica la conferma di quanto visto alla televisione. Ma perché finiscono in carcere queste persone?

Perché la legislazione è fortemente discriminatoria nei loro confronti.

Perché essere straniero in Italia significa vivere una costante precarietà che dal lavoro si sposta sul piano civile, delle tutele di uno stato sociale, che collegate esclusivamente ad un mondo produttivo dell’ ora e adesso lavori, domani stai casa, vengono a decadere con la perdita dell’impiego. E se non trovi lavoro, nell’arco di tempo utile al rinnovamento, diventi clandestino tuo malgrado. Le opportunità diventano allora: lavoro nero, sottopagato, se non addirittura gratis in seguito a minacce, e all’impossibilità di reazione, perché senza documenti non puoi denunciare chi ti sfrutta, malavita, spaccio, carcerazione ( diventata ad hoc) di chi, espulso dal mercato del lavoro e dalle sue logiche legalmente condivise, viene a costituire un surplus, un eccedente umano, che non ha più nemmeno il diritto di contribuire senza usufruire.

Questo è il contesto che porta gli immigrati a commettere delitti o ad essere imprigionati solo su base amministrativa, senza cioè, sino all’introduzione di reato di clandestinità, aver commesso alcun reato.

E’ importante capire che la precarietà di queste persone, a differenza degli italiani che ne subiscono le conseguenze solo sul piano lavorativo, si è fatta totale, sino ad includere ogni dimensione della loro residenza in territorio straniero.  Ed il lavoro nero, diventato l’ultimo appiglio, si trasforma in quel che tutti gli italiani conoscono, un salvagente sgonfio che prima o poi ti può portare al fondo, nel mare dell’economia sommersa, con o senza permesso a punti.

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