Morire di caldo, morire di carcere. Che ne pensa il volontariato?

In questi giorni afosi i nervi sono messi a dura prova da un clima ingombrante, umido senza scampo di un sollievo o pausa di refrigerio. Ci si corica bagnati per svegliarsi sudati, mentre sulla fronte si accumula, come su grondaia sfinita, l’accavallarsi di gocce e gocce di fisiologico sfogo. L’essere umano posto in tale contesto meteorologico è portato naturalmente ad essere maggiormente suscettibile quando non apertamente irritabile.

E in carcere? Manco a parlarne, che tanto di carcere e di quel che lì dentro succede al di fuori del risibile spazio concesso sui TG nazionali, a chi interessa poi veramente? In carcere si muore di caldo e si muore e basta. Per questo motivo i volontari delle associazioni aderenti alla Conferenza regionale volontariato e giustizia della Liguria hanno deciso di manifestare la loro sofferenza per una situazione che se ha già oltrepassato il disumano, d’estate trabocca l’animale. L’Italia conta 67.800 detenuti ma solo 44.300 posti/branda e uno spazio a disposizione per ogni detenuto di 3 mq. Dall’inizio del 2010, 23 detenuti si sono impiccati, 6 sono morti dopo aver inalato del gas, 61 sono morti per malattia o per “cause non accertate”.

Dal 2000, 589 detenuti si sono suicidati, 1.688 sono morti in carcere.

Morire di carcere, il carcere in piazza.

All’interno del carcere i volontari sono di solito considerati un pò come dei marziani. Le direzioni spesso guardano loro come dei fastidiosi impiccioni, le guardie come intrusi, la cui attività aggrava, il già frustrante lavoro di custodia, i detenuti stessi, infine, spesso con simpatia, pensano: “Ma chi glielo fa fare di venire in carcere a parlare a noi perduti, reietti della società?”

Di seguito Il Secolo 21 pubblica le riflessioni di Anna Grosso ex presidente della Conferenza Regionale di volontariato e Giustizia: parole che aiutano ad approfondire questa tematica sempre nevralgica e sempre nevralgicamente trascurata, un punto di vista diretto e di importanza extra-istituzionale.

Da quanto tempo hai esperienza di volontariato in carcere?

Anna Grosso

Da circa una dozzina di anni. Prima avevo fatto volontariato tra diverse fasce deboli (senzatetto, terminali di Aids, tossicodipendenti, stranieri), ma non mi ero mai interessata al carcere: forse in fondo c’era in me l’idea che chi finisce in galera qualcosa ha combinato, allora è giusto che paghi. Poi, siccome i miei utenti senzatetto e tossici finivano spesso in carcere, ho incominciato ad interessarmi a quel che succedeva dentro, e la mia visione è cambiata: sono uscita dalla logica “i buoni fuori e i cattivi dentro” e ho incominciato a vedere il carcere come una discarica sociale in cui vanno a finire non i più colpevoli ma i più sfigati, e il carcere è diventato il centro del mio impegno.

Quali sono le difficoltà che  un volontario incontra nella sua attività in carcere?

Il volontario penitenziario che entra nel “pianeta carcere”si trova ad operare in una struttura chiusa governata da regole rigide che la natura stessa dell’istituzione impone, a interagire con le figure professionali operanti all’interno del carcere, per le quali la presenza del volontario può rappresentare un aggravio supplementare ai propri compiti già pesanti, e ad essere vista come il granello di sabbia negli ingranaggi. E’ importante che il volontario trovi il giusto equilibrio tra il rispetto dei regolamenti e dei ruoli e al tempo stesso sappia mantenere la propria autonomia rispetto all’ istituzione; è proprio questa indipendenza, questa terzietà che dà senso al suo ruolo e al suo rapporto con i detenuti.

In che situazione è il carcere di Marassi? E di Pontedecimo?

In questo momento il grosso problema delle carceri italiane è il sovraffollamento; Marassi e Pontedecimo non fanno certo eccezione. Qualche cifra: a Marassi su 456 posti regolamentari le presenze sono 739, di cui 406 (55%) stranieri; a Pontedecimo su 95 posti regolamentari le presenze sono 160, di cui 79 (49%) stranieri (dati del 18 febbraio 2010, fonte DAP).

E’ facile immaginare le ricadute del sovraffollamento sulla vivibilità nelle celle e nelle sezioni; si assiste a un aumento dei suicidi, atti di autolesionismo, manifestazioni di protesta o violenze tra gli stessi detenuti o contro il personale di Polizia Penitenziaria. In questa situazione il personale ce la mette tutta per mantenere l’ordine e la sicurezza, mentre le attività rieducative e di socializzazione, già normalmente scarse, vengono ulteriormente sacrificate.

Esistono in entrambi i carceri delle possibilità di lavoro (soprattutto intra muros come scopini, cuochi o spesini)  che sono molto ambite perché danno un piccolo guadagno ma soprattutto perché permettono di uscire per qualche ora dalla cella; ma sono pochi (10% circa) quelli che riescono ad accedervi; lo stesso dicasi dei corsi scolastici e delle attività culturali e sportive.

Momenti dell'incontro organizzato dai volontari delle carceri

Il volontariato è presente in entrambi i carceri. Fra le attività che svolge: colloqui di informazione e di sostegno morale, attività culturali e di socializzazione, distribuzione vestiario,  in particolare per i detenuti che non hanno famiglia e riferimenti sul territorio. Poi vi sono interventi mirati per alcune fasce specifiche: alcool-tossicodipendenti, detenuti nuovi giunti o dimittendi, accompagnamento per chi fruisce di permessi premio, ecc. A Pontedecimo, unico carcere con presenza femminile in Liguria, una particolare attenzione viene rivolta alla genitorialità delle detenute favorendo il contatto con i figli.

Il ruolo del volontario è spesso quello di stretto contatto con il detenuto a prescindere dai valori dell’istituzione, che idea ti sei fatta rispetto hai rapporti umani che hai costruito nella tua esperienza?

Ricordo sempre la prima volta che sono entrata in un carcere: è stato a Pontedecimo, dove mi era stato chiesto di parlare delle leggi sull’immigrazione a una trentina di detenute straniere. Mentre attraversavo i lunghi corridoi, tra lo sbattere dei cancelli e dei chiavistelli, ero abbastanza allarmata dell’impatto con un ambiente così insolito e con persone tanto “diverse”: come me la sarei cavata? Poi, quando alla fine in tante mi hanno circondato per chiedermi chiarimenti sulla loro situazione specifica, la sensazione di diversità era completamente scomparsa: ritrovavo in loro le stesse paure, speranze, preoccupazioni per i figli che esistono fuori dal carcere, e mi sembrava di essere fra le signore che incontro solitamente al mercato o dal parrucchiere. Penso che lo stesso sia capitato a molti volontari: imparare a vedere dietro al detenuto la persona, ognuna con la sua storia particolare, il suo bisogno particolare, ma anche con le sue qualità e le sue potenzialità.

Che scarto esiste fra cosa dovrebbe essere il carcere secondo la legge e la realtà?

Secondo la legge (Costituzione, art. 27, e Ordinamento Penitenziario, legge 354 /1975) le pene non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. In linea con il dettato costituzionale, l’Ordinamento Penitenziario introduce nuove norme che tendono a umanizzare la pena (vivibilità nelle carceri, spazi a disposizione dei detenuti ecc.) ma soprattutto inserisce il concetto di “trattamento” rieducativo, una rivoluzione rispetto alla legislazione precedente per cui la pena aveva una funzione soltanto punitiva.

Questo dice la legge: ed è con tristezza che chi si avvicina al carcere deve constatare che le cose vanno in modo assai diverso.

La vivibilità in carcere continua ad essere contraria al senso di umanità; e l’attività rieducativa è vanificata dal numero insufficiente di educatori e psicologi; normalmente il tempo che questi possono dedicare al singolo detenuto è di un’ora al mese, più spesso passata  nel loro ufficio a redigere rapporti che in sezione a conoscere i detenuti.

Anche gli agenti, che sono a più stretto contatto con i ristretti e che accanto alla loro funzione custodiale sono chiamati a partecipare all’attività di osservazione e trattamento rieducativo, hanno difficoltà a farlo nella situazione  attuale. Garantire la “pax carceraria” e arrivare a fine giornata senza suicidi e risse, senza evasioni e incidenti vari, diventa prioritario e richiede già tutto il loro impegno.

Come uscire da questa impasse? Finché il carcere resterà l’unica risposta al reato, anche a quei reati “bagatellari” che potrebbero essere più utilmente  sanzionati con pene diverse dalla detenzione, la situazione non farà che peggiorare. Queste sono state le conclusioni delle ultime Commissioni per la Riforma del Codice Penale (Nordio e Pisapia), che hanno proposto tutta una serie di sanzioni alternative al carcere; purtroppo il loro lavoro non ha avuto seguito.

Quanto a me, vorrei che si incominciasse a togliere dal carcere tossicodipendenti e extracomunitari: i primi per mandarli in comunità ad essere curati, i secondi quando il loro unico reato è la mancanza di permesso di soggiorno. La popolazione carceraria  diminuirebbe di colpo del 40-50% e vi sarebbero le condizioni per applicare veramente quel che prevede la legge in materia di vivibilità nelle carceri e di funzione rieducativa della pena.

Leggi anche: Disegno di legge svuota carcere, cambiare per rimanere uguali.

Pianeta Carcere, quando lo Stato evade le regole.

Parlare di carcere nel Belpaese.

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8 risposte a “Morire di caldo, morire di carcere. Che ne pensa il volontariato?”

  1. Si deve rivedere il modo di espiare la pena. Vista l’ impossibilità di assicurare la costruzione di nuovi e decenti istituti carcerari, si deve sostituire la detenzione con lavori socialmente utili in modo da far sì che chi ha commesso un reato risarcisca la vittima. Servono leggi diverse. Angela Burlando

  2. Si deve rivedere il modo di espiare la pena. Vista l’ impossibilità di assicurare la costruzione di nuovi e decenti istituti carcerari, si deve sostituire la detenzione con lavori socialmente utili in modo da far sì che chi ha commesso un reato risarcisca la vittima. Servono leggi diverse. Angela Burlando

    1. Quando si parla di piani per costruire nuovi carceri, si commettono tre gravissimi errori, primo si pensa di continuare a rinchiudere le persone come maniera per preservare i cittadini onesti, senza considerare le numerose evidenze che da quando il carcere è nato attestano il suo fallimento nel perseguire una rieducazione efficace, secondo, si finge di voler costruire nuovi istituti su basi umanitarie, mentre si omette di riflettere sul fatto che con leggi differenti ( in materia di stupefacenti e immigrazione) non ci sarebbe bisogno di nuovi posti perché basterebbe e avanzerebbero gli attuali, infine si dimentica, e per chi lavora per lo stato dovrebbe essere davvero uno sfregio, che non basta costruire nuovi carceri, bisogna anche renderli operativi, secondo le leggi, con adeguato personale. Da quanto tempo non si assume personale che non sia di custodia, ma addetto ad un approccio che non sia repressivo, ma come da legge educativo a livello individuale?
      Non serve lamentarsi adesso di tutti gli istituti dismessi lasciati a marcire in tutta la penisola solo Striscia la notizia qualche anno fa ne documentò sedici. Non abbiamo mai avuto così tanti carcerati dalla seconda guerra mondiale, la certezza della pena è davvero questa?

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