Vigilia di Natale maledetta. Marco Fiori, 24 anni, si è suicidato nel carcere di Pontedecimo. Ennesima solitudine che cresce nella rabbia gelida di una famiglia che si interroga, ormai in ritardo, sulle proprie colpe, ennesima sconfitta di una società che nel pieno della propria crisi ignora che dietro le sbarre si consumino tragedie agghiaccianti di un’umanità rimossa.
Quando si parla di carcere e dei suoi spettri: suicidi, autolesionismo, aggressioni, psicofarmaci, ombre di quel che furono uomini, sagome di quel che furono giovani, è sempre imprudente sottovalutare l’opinione di chi in carcere non andrà mai, che per quel che interessa alla gente infatti, indaffarati a stringere nelle unghie uno scampolo di dignità, la vita di Marco era solo quella di un balordo che spaccia e rapina, niente che stimoli a compassione o empatia insomma, nessuna pietà.
E Marco effettivamente spacciava e rapinava. Nel 2007 si era preso 2 anni e 8 mesi per delle pastiglie di ecstasy e, da incensurato, era uscito in affidamento per lavorare presso il gommista dove aveva già lavorato. Poi la rapina (per saldare debiti della partita di ectasy, pressato dai vecchi compagni di traffico) sconclusionata, alle cinque di pomeriggio da disperato con il casco aperto nel supermercato sotto casa. E così il rientro in galera.
Da recidivo, senza possibilità di misure alternative per un periodo di tre anni, Marco era arrivato a Pontedecimo da Marassi. Trasferito per la sua sicurezza: a Marassi infatti si era picchiato con altri detenuti e lo avevano allontanato.
Era lo scorso maggio e nel giro di 7 mesi Marco tenta il suicidio tre volte. Terza buona e così è stato. La dott.ssa Milano, direttrice del carcere, al telefono è ancora scossa, la voce tradisce quel che un ruolo burocratico dovrebbe celare, secondo copione: in seguito ad un primo tentativo di togliersi la vita, il 27 novembre, avevamo richiesto l’assegnazione ad un reparto speciale di vigilanza psichiatrica nel carcere di Torino. Non c’era posto.
Non c’era posto e Marco si è suicidato, voleva solo tornare a casa, per questa maledetta vigilia. Che poi, che il reparto psichiatrico di Torino lo avrebbe salvato è tutto da provare, quando uno decide, decide. Ed il reparto psichiatrico di un carcere è un luogo dove queste decisioni possono prendere in fretta una piega irreversibile. Il problema comunque, partendo dal caso specifico si allarga poi a macchia d’olio: in galera si paga con la libertà o con la vita? Sarebbe l’ora che si affrontasse con circospezione questa discriminante che trasforma il carcere, la più odiata istituzione democratica, in un macello umano. In 10 anni nelle carceri italiane sono morti 1.700 detenuti, di cui oltre un terzo per suicidio.
Un autentico macello di uomini.
Lo stato italiano è in grado di garantire l’incolumità di chi è recluso, verso se stesso e verso gli altri detenuti? La direttrice Milano riflette: a questo punto direi di no. Ma non c’è una netta correlazione fra mancanza di vigilanza e suicidio, la volontà suicidaria, quando c’è, è determinante a prescindere. Certo la volontà di chi decide di farla finita è fondamentale nel comprendere il gesto, ma quanto concorre nel crearne le basi una vita condotta nell’abbruttimento generale, in cella con il maresciallo Bruzzone che ha ammazzato la moglie e che ha già cercato di suicidarsi? Certo magari tra i due c’era anche un buon rapporto, quei rapporti solidali nati nelle difficoltà più profonde, magari era il meglio compagno di cella che la popolazione ristretta nel carcere avesse potuto esprimere, ma il dubbio atroce, di sottovalutazione, resta: i detenuti si dividono in cella per affinità, di origine, di delitto, di età e non certo secondo affinità suicidaria.
Sarcasmo sordido e cinismo di morte. Perché un ragazzo di 24 anni si è tolto la vita e il mondo del carcere, le sue regole ed i suoi responsabili, porteranno appresso il peso di Marco che sperava di uscire a luglio e secondo il suo avvocato era un’ipotesi plausibile.
