La scuola italiana fra integrazione e interazione. Di Simohamed Kaabour

Ventidue anni fa, mio padre decise di cercar fortuna in Europa. Capitò in Italia declinando la Francia come paese di approdo perché in quegli anni, la fine degli anni Ottanta, il «bel paese» era celebre per la sua accoglienza. Lì riprese il suo vecchio mestiere e decise di attuare un ricongiungimento familiare. Noi arrivammo a Genova all’inizio degli anni novanta, quando «lo straniero» godeva ancora di quella sua aria esotica e misteriosa.
Io, il più grande di quattro fratelli, ripresi il mio percorso di studi dalla quinta elementare sino all’attuale laurea in Lingue straniere. Crescendo in un quartiere a bassa affluenza di immigrati, imparammo in fretta la lingua, gli usi e costumi e cominciammo anche noi ad ambire alle stesse mete dei nostri coetanei e amici italiani. Senza accorgercene diventammo in parte italiani, e ciò rafforzò ancora di più la nostra ambizione. Scelsi di frequentare un liceo scientifico ma presto si delineò la mia poca attitudine alle materie scientifiche. Inaspettatamente scoprii il mio interesse per le lingue straniere e le materie umanistiche. Dopo la maturità la scelta di proseguire gli studi in ambito linguistico fu dettata da due condizioni diverse: consciamente, quella di divenire un docente e inconsciamente quella di riprendere la mia lingua madre, l’arabo, abbandonata da anni.

Il percorso universitario non fu unicamente di formazione ma anche di riflessione, mi portò a prendere coscienza della mia trasformazione culturale. Volli sfruttare questa mia particolarità, che coinvolgeva più competenze e in particolare quelle linguistiche, e conseguita la laurea decisi di presentare domanda al provveditorato per insegnare la lingua francese.

L’impatto con la burocrazia è stato violento, perché ho scoperto di non essere così italiano come pensavo. L’italianità non si percepisce. Si legge non nei tratti, non negli atteggiamenti, non nelle parole, ma sui documenti. Non si è italiani, per lo Stato, finché non è scritto sulla carta di identità.

La mia prima esperienza come docente è durata un mese. Il fato volle che andassi a insegnare in una scuola celebre per avere una grande concentrazione di alunni stranieri. La mia entrata in classe fu emozionante sia per me che per i miei studenti, sorpresi nel vedere un professore così giovane e così «straniero». La mia età, quasi ancora da studente più che da insegnante, ha fatto sì che si stabilisse tra noi una buona intesa. Non capita tutti i giorni di avere un professore che insegna francese, parla arabo e conosce le parolacce in almeno quattro lingue diverse, che inevitabilmente sono anche quelle prevalenti in classe.

Il mio ruolo di professore mi porta a confrontarmi con più situazioni, difficili da gestire; devo essere un docente imparziale, un esempio da seguire per i ragazzi di origine straniera, ma devo anche essere l’esempio di una buona «integrazione» per gli alunni di origine italiana. Gli studenti sono curiosi di sapere dove sono nato, quando sono arrivato e se sono musulmano.

Al ruolo di docente si alterna quello di mediatore e orientatore culturale.

Devo mediare quando uno dei miei alunni dà dell’albanese al suo compagno che si offende, perché non si considera tale nonostante i suoi genitori siano nati Tirana. Devo orientare, invece, quando i ragazzi hanno difficoltà ad accettare se stessi in quanto considerati stranieri.

Mi aiuta sicuramente la mia esperienza personale, che porto spesso come esempio, presentando le mie origini come una particolarità che compone una mia pluralità identitaria.
Il mese di marzo del 2009 ha segnato la mia vita, le parole di giuramento di fede alla Repubblica e alla Costituzione italiana hanno dato inizio a una nuova storia. Questa volta nel mio vocabolario è entrata a far parte la definizione «cittadino italiano», che mi ha permesso di riprendere l’insegnamento. Nuovamente docente, ho ripreso il mio lavoro in una scuola di periferia.
Così come nella mia precedente esperienza, il problema con gli alunni è stato quello di mantenere la distanza necessaria, per «prendere le redini» della classe. A partire dalla solita domanda, ovvero se darmi del «lei» o del «tu», i ragazzi hanno cercato di capire quale tipo di rapporto stabilire. Il «lei» è stata una scelta necessaria per ricalcare la divisione dei ruoli. Immagino ci sarà stata grande sorpresa, da parte dei genitori, quando hanno scoperto che il professore si chiama Simohamed. Prima della consegna delle pagelline del primo semestre sarà stato ben difficile immaginare che faccia avessi. L’unica notizia giunta a casa, prima del mio arrivo, era stata che alla professoressa di ruolo, momentaneamente ammalata, sarebbe subentrato un giovane «madrelingua francese».
In realtà sono pluri-madrelingua, ma in quella situazione non mi era ancora possibile mettere in primo piano la pluralità delle appartenenze. Appena varcata la soglia dell’entrata, il primo giorno, agli occhi di chi mi ha accolto sono sembrato un ragazzo straniero; dopo essermi presentato sono diventato il supplente di francese; arrivato davanti alla porta della classe che avrei preso in consegna, sono apparso come un alunno un po’ troppo cresciuto, e il professore di sostegno mi ha chiesto «e te dove ti mettiamo ora? Vai a sederti vicino a Carlos, in fondo». Alla risposta che io ero il docente in sostituzione, ho ripreso le vesti di supplente inatteso, per il professore e per gli alunni. Sono scoppiati tutti a ridere, e io con loro.
La mia presenza a scuola condiziona tutti, alunni e colleghi professori fanno più attenzione alle parole, alle battute o al giudizio. A qualcuno però scappa di dire «sono tutti uguali, i sudamericani». Il mio sguardo spesso fa scattare l’allarme per chi esterna giudizi simili, che corre ai ripari cercando di giustificarsi. Vivere una condizione e giudicare altri che la vivano è certamente diverso da chi non la conosce affatto, ed è ciò che rende particolare il mio ruolo.
La scuola, bacino di raccolta dove cresce una nuova generazione, è da sempre il luogo per eccellenza della famigerata «integrazione». Ormai questo termine, che fa parte del nostro lessico quotidiano, ha assunto nella mia esperienza una forma con tratti quasi umani. Fino a quando non sono entrato a scuola non ho avuto mai l’occasione di vedere l’integrazione così da vicino. Così come capita per i nomi stranieri, spesso distorti o italianizzati, continuiamo a chiamare «integrazione» un processo che ha tutta altra definizione. Finalmente comincia ad apparirmi più chiaro il sentimento di rifiuto che provo per quella parola, così come è evidente il rifiuto che suscita nei miei alunni. Gli studenti danno sempre definizioni vaghe del termine «integrazione», mentre è sempre chiara la definizione che danno di se stessi. Prima di definirsi italiani o stranieri, si definiscono con il proprio nome, pronunciato nella maniera corretta. La mia esperienza di docenza mi ha permesso di rivedere e correggere il continuo errore di cui siamo tutti partecipi; la nuova generazione di nuovi italiani non ha bisogno di integrazione, ma di interazione.
L’ora di francese prevede anche una parte dedicata alla «civilisation». Il punto di partenza è sicuramente la Francia e la lingua francese, ma l’arrivo è tutt’altro. La semplice domanda «come mai lei parla così bene francese?» porta me e la mia classe nel mio paese di origine, il Marocco, e nella mia città natale, Casablanca. Attraverso il racconto dei miei pochi anni di studio in Marocco ritrovo negli occhi degli studenti la curiosità che distingueva i primi mesi dopo il mio arrivo.
L’espressione di stupore dei miei compagni in quinta elementare torna magicamente sui volti dei miei alunni. Accade però che il solo fatto di nominare parole come «marocchino» sposti l’attenzione su argomenti ben più scottanti, come per esempio il terrorismo islamico. Non è  facile convincere una ragazzina di dodici anni che certi atti terroristici sono commessi da una minoranza, ma è pur sempre un’occasione per coinvolgere l’intera classe nella discussione, ovviamente in francese.

La mia posizione di precarietà, a scuola, dovuta all’ultima riforma in materia e ai tagli, va di pari passo con la precarietà dei miei diritti in quanto nuovo cittadino che non trova un’ubicazione stabile all’interno della società. Per chi, come me, è considerato ancora un ospite, una sistemazione lavorativa attinente ai propri studi non è un diritto, ma è ancora vista come un favore. Una condizione non da meritarsi ma da guadagnarsi a gomitate.


Per me, o meglio per noi, si tratta di mettere in gioco molta più energia per trovare strategie di adattamento alle difficoltà di questa società. Se all’inizio della mia carriera universitaria, l’obiettivo era quello di ricoprire una carica inusuale per una persona come me, oggi l’intento è quello di forzare i tempi cercando di passare dallo status del supplente inatteso a quella di nuovo profilo in cattedra.

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8 risposte a “La scuola italiana fra integrazione e interazione. Di Simohamed Kaabour”

  1. grazie sono una docente di scuola primaria e leggere queste tue riflessioni mi ha colpito molto, sarebbe utile che giraserro più esperienze di questo tipo come le esperienze delle seconde generazioni di cui non sappiamo nulla…

    1. Mi fa piacere sapere che le mie parole scaturiscono riflessioni in chi le legge. In Italia c’è una generazione che continua ad essere descritta come straniera ma ciò non fa altro che provocare l’effetto contrario di quello che continuano a chiamare integrazione. Sicuramente in una scuola primaria un bambino è ancora in fase di formazione culturale e l’unica cosa di cui ha bisogno è di essere amato e trattato come gli altri non solo affettivamente ma anche linguisticamente parlando. Quella che i sociologi hanno chiamato seconda generazione non è altro che un’altra maniera di essere italiani, francesi ec..insomma europei quindi l’importante è che crescano con la consapevolezza che sono parte attiva e necessaria della società, non piu di adozione ma materna.
      Il cambiamento parte da noi..

  2. grazie sono una docente di scuola primaria e leggere queste tue riflessioni mi ha colpito molto, sarebbe utile che giraserro più esperienze di questo tipo come le esperienze delle seconde generazioni di cui non sappiamo nulla…

    1. Mi fa piacere sapere che le mie parole scaturiscono riflessioni in chi le legge. In Italia c’è una generazione che continua ad essere descritta come straniera ma ciò non fa altro che provocare l’effetto contrario di quello che continuano a chiamare integrazione. Sicuramente in una scuola primaria un bambino è ancora in fase di formazione culturale e l’unica cosa di cui ha bisogno è di essere amato e trattato come gli altri non solo affettivamente ma anche linguisticamente parlando. Quella che i sociologi hanno chiamato seconda generazione non è altro che un’altra maniera di essere italiani, francesi ec..insomma europei quindi l’importante è che crescano con la consapevolezza che sono parte attiva e necessaria della società, non piu di adozione ma materna.
      Il cambiamento parte da noi..

  3. grazie sono una docente di scuola primaria e leggere queste tue riflessioni mi ha colpito molto, sarebbe utile che giraserro più esperienze di questo tipo come le esperienze delle seconde generazioni di cui non sappiamo nulla…

    1. Mi fa piacere sapere che le mie parole scaturiscono riflessioni in chi le legge. In Italia c’è una generazione che continua ad essere descritta come straniera ma ciò non fa altro che provocare l’effetto contrario di quello che continuano a chiamare integrazione. Sicuramente in una scuola primaria un bambino è ancora in fase di formazione culturale e l’unica cosa di cui ha bisogno è di essere amato e trattato come gli altri non solo affettivamente ma anche linguisticamente parlando. Quella che i sociologi hanno chiamato seconda generazione non è altro che un’altra maniera di essere italiani, francesi ec..insomma europei quindi l’importante è che crescano con la consapevolezza che sono parte attiva e necessaria della società, non piu di adozione ma materna.
      Il cambiamento parte da noi..

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