Economista bolognese, Filippo Taddei ha recentemente spiegato sulle righe dell’Espresso perché in Italia esiste una generazione senza pensione: gli under 35. Oggi sul Secolo 21 Taddei continua ad affrontare l’argomento, proponendo differenti stimoli di riflessione per quei giovani il cui presente è tanto incerto quanto il futuro tragicamente inesorabile.
Questi giovani che condividono il destino al quale il paese è rivolto. Contratti atipici, sempre più diffusi e normalità per la maggioranza, contributi versati e non, innalzamento dell’età pensionistica.
La voce è circolata e si è diffusa, ormai è ufficiale: nessuno prenderà la pensione. Ma come è potuto succedere? E soprattutto dove sono i responsabili?
La parola all’esperto..
Esiste in Italia una generazione senza pensione e come si è arrivati a questa situazione?
Dire che le giovani generazioni di oggi non avranno una pensione è sbagliato. Il problema è nel livello di pensione che percepiranno, ed è drammatico. Chi comincia a lavorare oggi guarda ai propri genitori per farsi un’idea del livello della pensione che riceverà e non ci potrebbe essere errore più grande.
Un lavoratore che va in pensione nel 2008 a 63 anni, dopo una carriera di 35 anni da dipendente privato, riceve in pensione poco meno del 70% dell’ultimo stipendio, contro il solo 50% che riceverebbe se andasse in pensione nel 2040. A parità di carriera lavorativa naturalmente. Queste sono stime della Ragioneria Generale dello Stato, numeri che tutti possono controllare.
Bisogna però ricordare che queste sono valutazioni ottimistiche: tra le giovani generazioni è difficile trovare qualcuno che, assunto con un contratto a tempo indeterminato a 28 anni, potrà vantare una carriera che permetta di arrivare a 63 anni con ben 35 anni di contributi.Se poi si volesse fare il confronto sulle pensioni dei lavoratori autonomi, la differenza sarebbe ancora più drammatica:
si passerebbe da una pensione eguale al 68% dell’ultimo stipendio nel 2008 ad una che ne supera di poco il 30% nel 2040.
Quanti sono i giovani interessati da questo stato di fatto?
Tutti i lavoratori italiani con meno di 35 anni di età e che non abbiamo un fondo pensione integrativo pagato dal datore di lavoro. Una sparutissima minoranza quindi.
Le remunerazioni di questo paese premiano innanzitutto l’anzianità, anche a scapito della competenza individuale. Che degenerazione crea questa situazione, all’interno dello scenario della competizione globale per un paese come l’Italia?

L’Italia è l’unico dei grandi paesi europei in cui le remunerazioni nel settore privato crescono sempre con l’anzianità dei lavoratori. Sono dati EUROSTAT. A sostegno di questo peculiare equilibrio del mercato del lavoro italiano, in passato c’era la convinzione da parte dei lavoratori di questo paese che, se avessero accettato remunerazioni basse all’inizio della propria carriera, sarebbero poi stati ricompensati attraverso remunerazioni sempre crescenti nell’anzianità e pensioni proporzionate solo all’ultima fase della propria vita lavorativa.
Esisteva un patto sociale implicito in cui lavoratori giovani e produttivi accettavano di venire sottopagati in cambio della promessa di aumenti di reddito posticipati nel tempo e pensioni a questi proporzionati. Questa caratteristica strutturale della nostra economia, presente in passato come oggi, ha semplicemente smesso di essere accettabile nella situazione attuale: a causa della prolungata stagnazione economica del paese e della riduzione, dovuta al sistema contributivo, delle pensioni di chi oggi comincia a lavorare. Il sistema previdenziale non è un pezzo isolato dell’economia e, se si decide di cambiarlo, non si può evitare di toccare anche il resto.
Come si potrebbe intervenire per combattere questa deriva che mina alla base, il patto sociale?
La politica deve capire davvero che la nostra economia è cambiata e deve cambiare ancora di più. Rimane ancora da compensare quei lavoratori, in prevalenza donne e giovani, a cui attende un futuro particolarmente difficile, anche a causa di una pensione pubblica insufficiente. Se mettiamo anche il sistema previdenziale al servizio dell’obiettivo generale di favorire la trasformazione produttiva di questo paese attraverso un mercato del lavoro flessibile, allora bisogna cominciare da due interventi, diversi ma strettamente collegati nella logica del sistema contributivo.
Il primo é assicurare la continuità contributiva alla maggior parte dei lavoratori. Per questo è necessario ridurre l’incertezza individuale nel mercato del lavoro attraverso l’introduzione di un assegno universale di disoccupazione e di un percorso definito di stabilizzazione occupazionale, come il contratto unico a tutele crescenti proposto dagli economisti Boeri e Garibaldi.
Il secondo intervento é costruire un complemento alle carenze del sistema previdenziale pubblico attraverso il massiccio sussidiamento fiscale del risparmio privato volto all’età del pensionamento.
A differenza del vecchio sistema retributivo, che calcolava la pensione sugli ultimi stipendi percepiti a fine carriera, nel nuovo sistema contributivo il calcolo pensionistico è legato ai contributi versati durante l’intera carriera lavorativa. Nella definizione di questo nuovo paradigma come non si è potuto tenere conto della precarietà?
In effetti è una cosa incredibile. Non ha alcuna giustificazione economica. Sembra non si capisca che sistema pensionistico, stato sociale e mercato del lavoro sono strettamente collegati. Il punto generale è che non ha senso uno stato sociale legato ad un modello di lavoratore, ad un inquadramento contrattuale e ad orari di lavoro che semplicemente non esistono più. Quindi bisogna ricominciare a pensarli tutti insieme come mezzi per raggiungere il fine comune di tornare a crescere. Il paese è fermo.
Si è scelto forse di sacrificare una generazione ai cambiamenti del mondo del lavoro o si sarebbe potuto imboccare un’altra strada?
Certo che si poteva fare altrimenti. Non penso però che ci sia stata una consapevolezza degli effetti di quel che stava accadendo. Il che forse è un’aggravante, più che una scusante. E’ inevitabile che, quando il sistema economico cambia o entra in crisi prolungata come il nostro, le persone che vi sono appena entrate paghino il prezzo più alto in termini di incertezza.
Quel che invece dovrebbe essere evitabile è che chi paga i prezzi più alti non riceva anche le maggiori compensazioni. Non chiedo di rinunciare alla flessibilità del mercato del lavoro: sono un co.co.pro. a mia volta. Chiedo però di essere compensato equamente se sopporto rischi maggiori dei miei concittadini.
Nel 2008 si prevedeva che l’attuale tendenza di spesa del sistema pensionistico si sarebbe raggiunta soltanto nel 2035. Cosa è andato storto in quella valutazione?
In una parola: la crisi. Se il prodotto interno lordo cala del 5% in un anno come è successo nel 2009 ma le pensioni non cambiano (giustamente), allora il rapporto tra spesa pensionista e PIL non può che esplodere. Tra le tante responsabilità che attribuisco alla politica pensionistica di questo paese, questa però non è una di quelle.
In un paese con gli stipendi più bassi d’Europa, i redditi percepiti a inizio carriera in questo momento sono davvero molto bassi per la maggioranza dei giovani italiani. Come pensare di sopravvivere a se stessi e al proprio lavoro una volta giunto fra 40 anni il momento della pensione?
Lo ripeto: il paese è fermo. Non dalla crisi, da prima della crisi. Dalla 2001 al 2007 questo paese è cresciuto meno di tutte, sottolineo tutte le economie sviluppate che fanno parte dell’OCSE. Il peggior errore che possiamo fare è dare per scontato il nostro attuale livello di benessere.
Il vero rischio è quello di ritrovarsi quel giorno tra 40 anni, quando sarà forse troppo tardi, completamente impreparati. Non intendo solo come individui, ma soprattutto come paese. Essere un paese sfilacciato, senza un patto sociale tra giovani e vecchi, tra ricchi e poveri ed essere completamente sfilacciati.
Se una fetta fondamentale della nostra popolazione avrà pensioni fondamentalmente inadeguate, si rivolgerà alla politica per batter cassa e ricevere risorse. Ma sarà molto più costoso, oltre che iniquo, farlo quel giorno invece che oggi.
AHI tutto questo è avvilente ma auspicabile .speriamo in un capovolgimento di previsioni praticamente un MIRACOLO
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Al solito si fa la confusione tra “precari” e “lavoratori autonomi”. Un lavoratore autonomo non cerca “un percorso definito di stabilizzazione occupazionale”, vuole restare autonomo. Non si può pensare che il posto fisso sia l’unica soluzione occupazionale. Invece, se si abbassasse la quota versata all’INPS (oggi più del 26%) per la previdenza, sarebbe possibile per i lavoratori autonomi investire in una previdenza complementare.
Lo scopo di questa intervista era appunto fornire degli spunti al pubblico in maniera da innescare un dibattito su elementi di realtà: la tua proposta mi sembra molto interessante, conosci qualche forma di previdenza complementare da consigliare agli altri lettori? Se avessi qualche altra considerazione da fare sarà benvenuta.
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Una vera e propria odissea!
Complimenti per il blog!
Ti invito tra l’altro se vuoi e puoi ricambiare la visita sul nostro blog Vongole & Merluzzi a leggere l’ultimo articolo, ultimo di una serie di post su 29 donne operaie licenziate in un’industria tessile a Latina…
Potrai comunque trovare altri post di tuo gradimento.
A risentirci su questi mari!!!
http://vongolemerluzzi.wordpress.com/2011/02/22/lo-strip-tease-dei-diritti-7/
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