
La Corte d’Assise d’Appello di Genova ha assolto oggi Antonio Giovanni Rasero per “non aver commesso il fatto”, ribaltando così la sentenza di primo grado che aveva condannato Rasero a 26 anni per “concorso in omicidio” del piccolo Alessandro Mathas avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 marzo 2010 in un residence di Nervi.
In sostanza i giudici hanno accolto la richiesta dei legali di Antonio Rasero – Andrea Vernazza e Luigi Chiappero – che avevano smontato, punto per punto, il fragile castello accusatorio messo in piedi dal pubblico ministero Marco Airoldi.
Castello accusatorio tanto fragile che la Corte d’Assise decideva per la condanna di Rasero “in concorso”, bacchettando quindi implicitamente il pubblico ministero con il ritorno degli atti alla Procura di Genova per procedere nei confronti della madre di Alessandro, Caterina Mathas:«L’ atteggiamento complessivamente inerte e omissivo della Mathas è una conferma indiretta del suo coinvolgimento nella morte del figlio Alessandro», diceva la sentenza.
Probabilmente la gran parte dei mass media userà tutta la gamma di aggettivi altisonanti per definire definirà la sentenza: “clamorosa”,”sorprendente”, etc. In realtà sarebbe bastato seguire con attenzione l’ istruttoria per rendersi conto che la vicenda era tutt’altro che chiara e che si procedeva a senso unico.
Succedeva infatti che il pm Airoldi decideva la scarcerazione della Mathas dopo soli 17 giorni e derubricava il capo d’imputazione in “abbandono di minore con conseguente morte”.
Quale elemento nuovo e inconfutabile era intervenuto a motivare l’operato del pm?
La risposta – alla luce della richiesta della Corte d’assise e dell’odierna sentenza assolutoria – è una sola: nessuno. Né poteva essere diversamente, trattandosi di un processo indiziario, in cui tutto è basato sulle testimonianze dei due protagonisti e sulle perizie medico-legali. Elementi che avrebbero dovuto essere sottoposti, appunto, al vaglio della Corte d’Assise, unitamente ad altri di cui forse non si è tenuto affatto conto.
Tutta questa sciagurata vicenda, come è noto, ruota infatti attorno alla cocaina che, è altrettanto noto, trova consumatori negli ambienti più diversi.
Non a caso la sentenza della corte d’assise chiede al PM di valutare “le iniziative da adottare, ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione penale, nei confronti sia dei plurimi spacciatori ai quali la Mathas ha riferito essere solita rivolgersi per approvvigionarsi di cocaina” sia di “Paolo Calissano, indicato in particolare dalla Mathas quale procacciatore di cocaina….”. Calissano, già condannato per un festino in cui ha trovato la morte una giovane, è stato interrogato come “persona informata sui fatti” ed uscito dall’inchiesta.
La stessa questura di Genova, d’altra parte, è stata nel recente passato costretta a fare pulizia al proprio interno per vicende legate alla cocaina.
Era quindi possibile che le indagini per una vicenda così complessa potessero esaurirsi in soli 84 giorni?
Nei confronti di Rasero, comunque, la rapidità è stata una costante: dal momento dell’arresto di Rasero e Mathas – per omicidio pluriaggravato in concorso tra loro – al rinvio a giudizio, per il solo Rasero, sono passati 84 giorni, domeniche incluse.
Ora i giudici della Corte d’assise hanno fatto tabula rasa e c’è da pensare che la Procura genovese affiderà ad un magistrato più solerte, e soprattutto non prevenuto, il fascicolo che il dottor Airoldi è stato “costretto” ad aprire nei confronti della Mathas a seguito della sentenza di primo grado, salvo poi non dar seguito giudiziario, e quelli nei confronti dei “plurimi spacciatori” e di Calissano, se mai sono stati aperti.